Dicono che c’erano i ponti e che sotto passava la Neretva come un cavallo verde che aveva molte selle. La più bella era bianca, di pietra “tinelia” e così alta che pareva una mezza luna. Così gli innamorati a Mostar avevano due lune per andarsi a baciare.
Quando c’entrai la prima volta, era l’inverno del 93/94, non c’erano ponti e quella non era una città. Era campo di guerra, trincea e lebbra di granate dal selciato ai tetti, ahi Mostar di oriente, era facile amarti, per la ferrovia ferma e arrugginita, per l’ospedale che ricuciva corpi negli scantinati al buio di candela, per i bambini svelti di sorrisi e agili di fame, così fratelli degli scugnizzi di Napoli della mia infanzia di dopoguerra. Non dico del fiume, perché non c’erano più tuffatori.
Con i camion degli italiani sono venuto sei, dodici, ventiquattro volte, finché non sono apparsi ai tuoi incroci i semafori del dopoguerra. Quell’inverno portammo un generatore di elettricità per l’ospedale, nascosto in mezzo ai pacchi dei viveri, ma anche un vestito da sposa e una biciletta da corsa per il tuo ciclista che aveva fatto molti anni prima il Giro d’Italia e girava ancora, a dimostrazione che lo sport scansa dai malanni, anche dalle bombe e dai fucili di precisione.
Ora hai la sala da musica di Pavarotti, hai le pietre dello Stari Most ripescate dal fiume, hai i poeti. Sei una città piena di resurrezione, gli operai e i bar ti hanno soffiato il loro fiato in bocca. Questo non è secolo da prosa, è da poesia. Resta la letteratura di chi ha avuto poca carta e ha sentito restringersi il tempo e aveva da chiudere tutta la vita che poteva in una pagina. A Varsavia nel ghetto si scrivevano poesie. E chi si è trovato chiuso in qualche prigione del millenovecento senza un compagno e un libro, si è salvato solo se ricordava dei versi. E’ stato il secolo dei poeti e dei boia. E solo i poeti possono salvare la lingua usata dai boia. Solo Heine, Rilke, Celan mi hanno salvato il tedesco.
La vita riparte dalle mammelle e dai versi. Qui ce ne sono, ma solo la caparra, una manciata da un fondo perduto. Gli assedi bruciano biblioteche e gli assediati bruciano libri per scaldarsi. Però salvano un foglio per scriverci un verso e da lì ripartono le lingue, le lettere e la posta senza affrancatura che fa arrivare una poesia di Mostar tra le mani di sconosciuti all’estero. Eccoci Mostar, siamo gli stranieri che hai chiamato, prima con le tue pietre in fiamme, poi con i poeti.
Caro Erri ,quanta bellezza in queste pagine del martedì,insieme danno vita a un libro aperto,
una sorta di -Zibaldone- che si vorrebbe non finisse mai.Ti auguro sereni e beati giorni ancora per molti giorni
Grazie Erri di ricordarci Mostar,la sua rinascita.Travolti come siamo da ciò che succede ogni giorno,finiamo per perdere il filo della storia
che pure ancora oggi manda i suoi sussulti ,le sue scosse.Pensando alle europee che si avvicinano.
C’è un’ora dell’umiltà-in cui tutto si colora di pena
-Molte potenze sono tremende ma nessuna lo è più dell’uomo-Antigone
Frutto della pena è quasi sempre il canto
“Ci saranno sempre dei sassi sul tuo cammino. Dipende da te se farne dei muri o dei ponti”…
… O farne poesia!
grazie, Erri. Ne”la doppia vita dei numeri” già parli al cuore citando Mostar
Le vie dei canti, senza la nostra vita mi sembra di una povertà irredimibile.Questi sono tempi tristi
È la pagina di poesia più bella e più intensa che ho letto nell’ultimo anno. Grazie per questo regalo!
Fantastico racconto di quel che resta avanti e dopo le rovine. “È stato il secolo dei poeti e dei boia. E solo i poeti possono salvare la lingua usata dai boia. Solo Heine, Rilke, Celan mi hanno salvato il tedesco. La vita riparte dalle mammelle e dai versi”. Scriva Erri De Luca sensibilità affilata da tante letture e tanta vita spesa. Così il grande studioso, Benedetto Croce, da Napoli, continuava durante due pessime guerre mondiali un serrato studio, dialogando con Goethe, salvando mentre l’intero mondo rovinava almeno la grande lingua letteraria tedesca.
Come Mostar il mio animo anela ressurrezione