Ma il verbo shaà non esprime affatto gradimento. Ricorre quindici volte nell’ebraico del- la scrittura sacra, Antico Testamento, e significa “scrutare”, un osservare attento.
Il maggiore utente del verbo è Isaia che vi ricorre sette volte. Due volte è in bocca a Giobbe/Iiòv e una di queste è assai brusca, rivolgendola alla divinità: “Come non scruterai via da me, non mi lascerai inghiottire la mia saliva?” (7,19). E se a Giobbe/Iiòv si può concedere un’attenuante per accumulo di disgrazie, nessuna ne ha Davide che così sbotta con la divinità: “Scruta via da me e avrò sollievo” (Salmo 39, 14).
In nessuno dei quindici casi si può prendere il verbo shaà per gradimento. E i traduttori si guardano bene dal tradurre così negli altri casi. Sembra assurdo, invece è usanza, da parte dei traduttori, svariare i significati di una singola parola ebraica.
Allora che è successo? Intanto è bene sollevare la divinità dall’innesco dell’ira di Caino. Avesse gradito l’offerta di Abele e sgradito l’altra, sarebbe responsabile del movente.
E scritto invece un fraintendimento tra creatura e divinità, il primo di molti, nel difficile rapporto tra la terra e il cielo. Caino offre primizie del raccolto, è un contadino. Inventa il gesto di bruciarle in omaggio alla divinità, come restituzione, perché tutto le appartiene. La divinità accoglie la spontanea mossa inventata dal primogenito della specie umana. Abele allora imita il fratello e, da pastore, offre i primogeniti del suo allevamento. È il primo sacrificio cruento alzato sull’altare di pietra e poi bruciato. Sale al cielo il primo odore di carne che fu viva e poi cenere. La divinità scruta la novità. La creatura umana prende iniziative, inventa, inaugura. È la variabile che esprime comportamenti nuovi, usanze, riti.
La divinità scruta l’offerta di Abele e non scruta più quella di Caino, che ha già conosciuto e approvato.
Caino si accorge dolorosamente che Abele gli ha sottratto l’attenzione esclusiva della divinità. È defraudato dall’imitazione del fratello. Non lo uccide per odio ma per forsennato zelo, per non dividere quella divinità con nessuno. Caino uccide per impulso fanatico a conservare la relazione senza concorrenti, per gelosia pura.
La divinità gli chiede conto di dov’è Abele. Lui risponde con una domanda: “Custode di mio fratello sono io?” Lo è. Quella domanda è già la formula della relazione umana: ognuno è custode del proprio fratello. Da Caino in poi è così. Chi lo nega attraverso parole, opere, omissioni è complice del primo fratricidio.
Lois Anvidalfarei è un testimone del delitto. È arrivato appena in ritardo sulla scena, sul campo, non ha visto l’agguato, che è appena finito. Abele è a terra, i suoi sangui iniziano a gridare (“Voce dei sangui di tuo fratello gridanti a me dal suolo”). Caino ha gettato via l’arma, si
a per fuggire dall’atto abissale che ha commesso. Ha sterminato una stirpe, nessuno sarà figlio di Abele. L’immensità di una discendenza innumerevole è stata cancellata. Lois Anvidalfarei vede Abele che si rotola nel vuoto della prima morte. Poi scruta Caino. Lois Anvidalfarei usa il verbo ebraico shaà per fissare la mossa di Caino, capostipite degli assassini. Lo spettatore è inchiodato al fotogramma impresso nella retina di Lois Anvidalfarei e da lì colato nel buio del bronzo.
Caino si sta voltando, non importa dove, non lo sa lui stesso. Si sta voltando per allonta- narsi dall’epicentro tellurico della sua vita. Quell’atto resterà il punto di partenza di ogni fuga. Il resto della sua vita sarà periferia irradiata da quel punto.
Diversi anni fa vidi sul campo di Lois Anvidalfarei il bronzo di Caino. Chiesi a Lois di acquistarlo. Lui stesso, con sua moglie Roberta Dapunt poeta di tre lingue, venne a portarmelo. Avevo preparato un piedistallo di cemento bianco su cui fissarlo. Ora sta nella stanza fitta di libri.
Buonasera Erri,
sto leggendo in questi giorni di vacanze un libro che mi è caro. A dire il vero è la prima volta che accosto le sue pagine, ma vi trovo un’intimità di voce in grado di incidere l’orecchio mio di “nuovo lettore”attraverso parole che sanno ben condurre. Lo si sente caro immediatamente e non solo è mio questo sentire man mano che proseguo; deve essere stato lo stesso per Etty Hillesum che lo ha scelto, riponendolo nello zaino insieme ad un altro, dello stesso autore, come compagno di viaggio e “permanenza provvisoria” nel campo di transito di Westerbork.
Si tratta di Das Stunde-Buch di Rainer Maria Rilke. Se lei già lo conosce immagino di sfondare una porta aperta… se invece, non ancora, approfitto per aggiungere alla sua pagina su Caino, letta in Fondazione una pagina di Rainer su Abele.
Il testo dice così:
Der blasse Abelknabe spricht: Parla il pallido fanciullo Abele
Ich bin nicht. Der Bruder hat mir was getan, Io non sono. Mio fratello mi ha fatto qualcosa,
was meine Augen nicht sahn. Qualcosa che i miei occhi non hanno visto.
Er hat mir das Licht verhaengt. Mi ha oscurato la luce.
Er hat mein Gesicht verdraengt Il mio volto ha scalzato via
mit seinem Gesicht. con il suo volto.
Er ist jetzt allein. Adesso è solo.
Ich denke, er muss noch sein. Penso che esista ancora.
Denn Ihm tut niemand, wie er mir getan. Poiché nessuno gli ha fatto ciò che lui ha fatto
a me.
Es gingen alle meine Bahn, Hanno percorso tutti il mio sentiero,
kommen alle vor seinen Zorn, tutti sono giunti di fronte al suo furore
gehen alle an ihm verloren. tutti in lui sono perduti.
Ich glaube, mein grosser Bruder wacht Credo che mio fratello, il maggiore, sia vigile
wie ein Gericht. come un tribunale.
An mich hat die Nacht gedacht; A me ha pensato la notte;
an ihn nicht. a lui no.
Rainer (Renè) Maria Rilke traduzione di Lorenzo Gobbi
Conoscendo un poco di tedesco, posso gustare tutta la ricchezza del testo originale e ahimè non riesco a mordermi il labbro…e fare a meno di pensare a das Gericht (il tribunale) così come a richtend ( colui che giudica: il giudicante) participio presente di richten che fra i vari significati ha: puntare, volgere, dirigere, giudicare. Lo sguardo di chi giudica è “scrutante”.
Anche quello di chi vuole conoscere.
Scruta lo sguardo di Dio allo stesso modo dello sguardo di Caino?! Se dovessi dirlo in tedesco: Richtet es ueber?(Giudica?). Come per Etty e per Renè da quello sguardo riesco a intendere solo altro. Ma noi, figli di Caino non sempre abbiamo la forza di sostenere la domanda quando è insistente, perché: insiste lo sguardo che vuole conoscere! Interroga scrutando per desiderio di conoscenza; come dire: è sguardo vigile.
E sempre colpisce nel dialogo di Dio con Caino quel chiedere conto del fratello. “Custode di mio fratello sono io?” Risponde Caino.
Non conosco l’ebraico ma sono pronta a scommettere che dentro la parola “custode”, ci stia un sentimento di vigilanza, che sa di cura, di interesse, il Wacht Gericht! (Sii vigile) del tedesco; ben diverso dal Bleibt richtend! (vigile come un tribunale) che denuncia Abele per bocca di Rainer. A Caino non serve una risposta esterna. C’è già. Sta dentro le parole della sua domanda.
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Allora tutti noi, Erri, siamo un po’ tuoi custodi. Protettori del tuo prezioso dire.
Ti vogliamo bene.