Melville chiudeva un suo poema con il verso: “No new world to mankind remains”, non rimane all’umanità nessun nuovo mondo. E’ così, il pianeta è stato esplorato, cartografato e assegnato.
E quelle? Si chiesero alcuni guardando le cime dei monti. Lassù mancavano i passi del più versatile e impiccione dei bipedi. Così l’alpinismo è diventato l’ultimo paragrafo della geografia. È in via di crescita: aumentano i praticanti. È in via di esaurimento: diminuiscono le sommità non ancora raggiunte. Una rivista specializzata ne conta 146 vergini, di taglia superiore ai settemila metri.
Ho imparato a scalare. L’abisso che sprofonda sotto i piedi non è vuoto. È il mucchio di tutti i metri toccati e saliti, è pieno di respiri, un piedistallo di aria e se non può farsi sostegno, però fa compagnia, è conosciuto.
Oggi mi struscio contro un brusco passaggio di strapiombo per desiderio di superarlo in stile pulito, in libera si dice. Eseguo un piccolo spartito di movimenti sopra appigli e appoggi, soffio nel respiro i colpi secchi per amministrare ossigeno, di solito manco una piccola presa da raggiungere al volo. Della scalata amo sia l’immensità degli spazi che il rigore dei centimetri. Ha per me il valore aggiunto di servire a niente. Nell’officina quotidiana degli sforzi destinati a un profitto, a un tornaconto, scalare è per me benedettamente affrancato da ogni scopo. Serve a niente: si dissocia da leggi di mercato che stabiliscono contropartita all’investimento di energie, al rischio. È solo “àskesis”, un esercizio, una pratica all’aria, voltando schiena al mondo, mettendo faccia al muro. È il gratis e quel poco di grazia che uno cerca in margine ai propri atti.
In qualche libro di vetta sulle Dolomiti ho trascritto un verso di Davide: “Sopra alture mi farà stare in piedi”.
L’abisso sotto i piedi, il cielo sulla testa.
Noi, in precario equilibrio sul filo trasparente dell’eternità.
I piedi sul ramo, le mani aggrappate alle fronde.
Noi, sospesi nell’immensità, acchiappando la vita che fugge via.
L’abisso sotto i piedi, il cielo sulla testa.
Noi, sospesi nell’immensità, acchiappando la vita che fugge.
Noi, travolti dal tempo, agganciandoci alle cime dei monti e alle fronde degli alberi…
È vero non c’è nulla da scoprire, però, pagine come queste di Erri De Luca danno una nuova vita ai luoghi, un riconoscere, appunto.