Una rara volta nella mia gioventù andai a teatro. Leggevo racconti di Anton Čechov e desiderai assistere a una sua opera messa in scena da un’eccellente compagnia.
Preferisco essere vago, non precisare.
Mi appassionai della recitazione. Era una storia completamente russa, eppure in italiano aveva trovato un suo posto intimo, locale, grazie alla traduzione e agli interpreti.
Mi coinvolse l’attrice per l’intensità della sua rassegnazione.
Le scrissi una lettera, trovando il modo di fargliela avere. Non ne ricordo una sola parola, ma il sentimento di quell’ammirazione. Ottenni una risposta, qualche riga di ringraziamento, che non ho conservato.
Commisi l’errore imperdonabile di scriverne una seconda. Sembra una cosa da nulla, che sarà mai una seconda lettera da essere imperdonabile? Il raddoppio diventava un’insistenza, peggio: una petulanza. Guastava la prima, screditandola a premessa, pretendendo un seguito. Non ebbi risposta.
L’usanza delle lettere ha svolto il suo valoroso compito nelle epoche precedenti, oggi sostituita da messaggerie. Ho appartenuto al tempo delle corrispondenze e credo sia stato un buon avviamento per altre scritture.
Consiglio alla persona che desideri o esiga da se stessa una vocazione letteraria, di esercitarsi con il formato lettera, rivolgerla a qualcuno. Immaginare che possa, leggendola, interessarsi al contenuto. Nel caso qualcuno voglia cimentarsi con questa forma antiquata, preciso che vanno scritte a con serbatoio d’inchiostro e su foglio di carta.
Fa parte dell’esercizio non ricevere risposta.
Ottima lettura. Grazie
Attendo ancora risposta dai miei amici immaginari. È esercizio di vita riempire con le mie parole i silenzi che mi hanno inviato. Il dialogo con me stessa è notevolmente migliorato, infatti mi do risposte con lo spirito giusto.
Grazie Erri sei sempre cristallino