Da una poesia di Eliot :
“Phelbas il Fenicio, morto di due settimane,
dimenticò lo strillo dei gabbiani e l’alto mare ondoso
e il guadagno e perdita.”
In montagna succede il contrario, perdita e guadagno, traguardo e sconfitta non si scordano e fanno coppia fissa fino a coincidere.
Nel luglio del 1865, pochi mesi mancano a fare 150 anni, il Cervino fu salito dal versante svizzero. In discesa morirono quattro suoi scalatori.Così l’alpinismo esordiva legando stretto il lutto e il successo per la cima raggiunta, la festa e il funerale. L’ alpinismo perciò è una severa formula della verità, dove “the profit and loss” di Eliot, guadagno e perdita sono i due tempi dello stesso respiro.
Nella recente idolatria dei vincenti si spaccia per vero il falso luccichìo di qualche vittoria, presto dimenticata. Coppe e medaglie servono appunto a ricordare il breve trionfo, svanito con la cronaca del giorno. Durano ben più a lungo le sconfitte che non hanno bisogno di metallo per restare impresse.
Lungo i pendii che conducono alle cime colossali del pianeta s’incontrano i corpi congelati degli alpinisti morti di tempesta, di edema, di stenti. Stanno a segnavia di chi passa accanto, completando un paragrafo della propria biografia. L’alpinismo è una verità sbattuta in faccia.
Per molti anni il passo chiave della via Nepalese all’Everest, lo “step” Hillary a 8700 metri, passava letteralmente sopra il corpo di un alpinista rimasto incastrato alle corde e congelato lì. Le punte dei ramponi degli scalatori si appoggiavano allo strato di ghiaccio dei suoi panni. Poi la famiglia pagò una spedizione che liberasse dal passaggio il corpo, facendolo precipitare lungo l’immensa parete ovest.
Da praticante di scalate so che una cima raggiunta esaudisce un desiderio tanto quanto lo esaurisce. Mentre lo porta al colmo anche lo svuota. Il guadagno e la perdita coincidono. Succede anche coi libri e con chissà quante altre faccende. Resta il residuo incenerito di una lettura, di un desiderio, concime del seguente.