Mai s’era sentita prima una voce di fili di rame, anziché di corde vocali. Inguainate in una gola magra le sillabe uscivano lacerate dall’attrito. Portavano corrente. Che razza di cantante era chi mai spalancava la voce, mai a gola tesa un grido: invece sputava tra i denti le sue magnifiche strofe.
«I vostri figli e figlie sono aldilà dei vostri ordini»: non era un verso, era uno sputo sui piedi delle gerarchie, uno scatarro contro l’albero di trasmissione di potere e sottomissione da una generazione all’altra. Poveri quei genitori: venivano dalla guerra scampata, da un’educazione patriarcale e ora che toccava a loro il turno di impartire un ordine, degli ordini, si trovavano una rivolta di figli che li buttava gambe all’aria. Non solo politica, la rivolta: non c’entrava solo il dannoso e dannato Vietnam dove si distruggeva a vuoto una quota massiccia di gioventù americana, presa e buttata a crepare e a incattivirsi negli acquitrini del Mekong. Come ora sui monti dell’Afghanistan e nelle antiche vallate del Tigri e dell’Eufrate: ovunque «misplaced», fuori di casa propria. Non era solo politico il fischio generale che Dylan soffiava nell’armonica a bocca, come un capostazione sul binario, non solo politico: perché negava i poteri, gli adulti e il loro diritto. Sabotava il loro mondo, dal modo di fare l’amore fino al modo di gioire di una vittoria olimpica, in due insieme sul gradino più alto a fare il pugno chiuso delle Pantere Nere, mentre suonava l’inno nazionale. Dylan fischiava negli anni Sessanta la partenza di un treno, chiamando fuori una generazione vasta come mai c’era stata prima su scala del mondo. Era diventato uno, il mondo: da dare i brividi. Una gioventù cantava Dylan e si scontrava con tutte le polizie, da Praga a Berlino, a Parigi, a Roma, negli Stati Uniti e in America del sud. Le stesse strofe e gli identici motivi: dava i brividi essere coetanei, avere una stessa musica da suonare in piazza e sopra un prato. Oggi il mondo è un mercato unico, a quel tempo è stato una sola gioventù. Ma a lui, a Dylan, non poteva bastare la politica, l’amore. Cantava e passava oltre. Non voleva, non ha voluto essere guida di nessuno: voleva la libertà di perdersi. A chi gli chiedeva di continuare a fischiare per il treno, voltava le spalle cantando la più sfacciata dichiarazione di amore a uno spacciatore, Mr. Tambourine man. E in una strofa c’era la più impolitica delle dichiarazioni: «Fammi scordare di oggi fino a domani». A chi gli chiedeva di continuare con la chitarra e le ballate, rispose con il rock. «Non sono quello che tu vuoi», diceva in «It ain’t me, babe».
Così a un ragazzo di Napoli accovacciato su se stesso nel posto meno adatto a isolamenti,arrivava la voce di uno che si era messo in strada chiudendosi dietro la porta di casa. Già leggere Kerouac era un’istigazione a disertare la parata sociale di ogni giorno, andarsene lontano alla malora bruciando cartoline militari, schede elettorali, regolamenti, orari di entrata e di uscita. C’era una libertà sconfinata là fuori, l’azzardo di una fraternità di uguali, che mettevano in comune gli spiccioli sufficienti al giorno. Era spaventosa la libertà là fuori, ma leggere Kerouac non bastava ancora. Ci voleva la musica, le strofe di Dylan cantate dai coetanei in giro per il mondo a dare la spinta decisiva. Là fuori non c’era solo la libertà orizzontale degli spazi di Kerouac, i treni merci presi al volo, la compagnia di un altro vagabondo nel bivacco. C’era una generazione là fuori ed era la mia, un’idea mai venuta prima di appartenere a un tempo decisivo di coetanei. Si muovevano in coro e come mossa di affrancamento mollavano tutto, casa, famiglia, posto, futuro apparecchiato. Non era estate e non andavano in vacanza. Andavano ad occupare il mondo, a starci dentro insieme, anche in prigione insieme. Kerouac non poteva bastare. I libri possono anticipare il tempo, fiutare il vento da lontano, ma non scatenano il resto del corpo. Per quello ci vuole la musica, le canzoni, per far saltare in piedi, uscire in strada, non sentire freddo, scordarsi di mangiare, gridare il giusto senza starlo a chiedere a qualcuno, gridarlo perché quello è il campo e chi ne è fuori è spento.
Ci voleva Dylan a spingermi fuori di casa giù per le scale con un bagaglio minimo, nessun libro e in tasca un solo biglietto giurato: mai più. Ci voleva Dylan a scatenare il distacco da ogni origine e farmi iscrivere al libro aperto a tutti della mia generazione.
Poi ognuno per la sua strada, a lui i concerti e a noi altre assemblee. Noi, il più affollato pronome politico, raccolse i più svariati motivi personali, i più individuali e in ognuno c’era una scarica elettrica partita da lui. Dylan, Robert Zimmerman, nome ebraico d’Europa, discendente di migratori come tanti di noialtri, è stato il buttafuori di una gioventù partita per il mondo. E il mondo era un rosario di fascismi, e dove non c’erano si inventavano, in Grecia, in America Latina.
È toccato a lui che non ha mai mosso un passo di danza, dare inizio alla più sfrenata tarantola politica di una generazione mondo. Un cantante? Può bastargli il titolo professionale, ma le sue pagine stanno nel mio scaffale dei poeti, in ordine alfabetico tra l’inglese John Donne e il russo Sergej Esenin.
Articolo bellissimo…….
Adesso non so più dove smettono le ballate di Bob Dylan e corrono le considerazioni letteratissime di Erri De Luca, ma il filo è rosso e buono e lo seguo ben volentieri …
grandissimo erri.