Tra le cronache di ottobre se n’è infilata una, di sfuggita. È stato approvato il vaccino contro la malaria.
Da migliaia di anni, addirittura pare dal neolitico, infebbra la specie umana, unica tra i mammiferi a subirla. In Italia era endemica e a inizio ‘900 si contavano 3300 zone malariche, dove la durata della vita media non arrivava a 28 anni.
Una fatidica zanzara inoculò il plasmodio a Dante Alighieri causandone le febbri e poi la morte.
Ne scrivo per la strepitosa importanza di un vaccino e per condivisione. Ho preso la malaria in un villaggio della Tanzania, in mezzo agli anni ottanta del secolo passato.
Ho tremato di freddo a sud dell’Equatore sotto una coperta di lana, a causa delle alte febbri. Il cranio martellava come se fosse diventato un dente sotto ascesso. Rimbombava vuoto eppure doveva esserci ancora un cervello dentro.
A quel tempo si faceva prevenzione con pastiglie di clorochina, ma la zona in cui ho vissuto aveva già sviluppato un ceppo resistente.
Nel villaggio molti ne soffrivano, abbreviava la vita, stroncava i bambini. Ho condiviso febbri e ricadute, la malaria è ciclica.
Oggi squilla per me come un inno la notizia che esiste un vaccino.
Quest’anno l’Italia si è compiaciuta a buon diritto di molte medaglie alle Olimpiadi, di un premio Nobel per la fisica.
Aggiungo la mia congratulazione all’Italia che sradicò la malaria e alla medicina che ha investito e trovato rimedio all’antico malanno dei paesi poveri.
E’ una bella conquista tesò, quando inventeranno quello contro la miseria sarà un grande giorno. Per ci tengono in vita contro malattie semi letali, ma al prezzo di quale vita di merda? L’applauso per quel che mi riguarda è a una sola mano, è poco, ma per ora non so fare di meglio.
Ti abbraccio, Bibi.
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