Quelli chiusi nei recinti al capolinea di viaggi senza arrivo; quelli in fila davanti a una mensa per un pasto gratuito; quelli messi a lavori pesanti con salario leggero: il linguaggio corrente li definisce con un accenno di commiserazione: gli ultimi.
La parola indica la graduatoria di una competizione, un risultato finale.
Non è così per me. Vedo queste persone come avanguardie del presente in corso.
Lo sperimentano, lo esplorano con scarsità di mezzi e attaccamento alla vita stremata.
Se fossero naufraghi su un’isola disabitata, li chiameremmo resto salvato e primizia di nuovo insediamento.
Le loro baracche, i loro accampamenti sono avamposti nelle intemperie, prove di sopravvivenza.
Se arrivano a racimolare un risparmio lo spediscono a famiglie lontane.
Chi disse: ”Gli ultimi saranno i primi” intuì il capovolgimento dei fronti e la provvisorietà di ogni precedenza. La sua frase ha incontrato la musica di Bob Dylan in The Times they are a changing: ”and the first one now will later be last“. Conosco un giovanotto, Lorenzo Barone, che ha girato in bicicletta la Siberia in inverno e che in questi giorni sta battendo piste di Lapponia oltre il Circolo Polare Artico. È un esploratore di bordi in estremità di condizioni.
Così considero le persone definite dalle cronache: ultime. Seminano invece campi e tempi difficili, dissodano il tempo futuro.
Chi vuole conoscere i prossimi della specie umana, li trova presso di loro.
Sono caparra e anticipo, niente a che spartire con il fondo delle classifiche.
Non è così.
Mai tanti esseri umani sono riusciti a sfamarsi, a non morir di fame, come in questo mezzo secolo che abbiamo alle spalle. E mai tanti esseri umani sono contemporaneamente vissuti sulla Terra. Prima le file nei recinti erano in altri luoghi; ora ci sembrano più tragiche perché sono qui da noi.
Una volta in una trasmissione ti tirarono in mezzo sul discorso ‘immigrati’; ti chiesero s’era giusto che gli stranieri si arrangiassero in bugigattoli a rammendare vestiti per pochi euro, magari a nero, se quella poteva dirsi integrazione. Tu rispondesti “quella è già integrazione”. Si erano dimenticati, quei signori, che una volta eravamo noi quelli in coda o nei bugigattoli. Quel ‘Chi’ rispose che la pietra scartata diventerà pietra angolare. Aveva davvero la vista lunga, ‘Chi’. Ciao tesò, sempre belle parole di speranza le tue. tvb
Gli ultimi possono solo dirsi salvi. Non sono in competizione. Sono da amare e sfamare del pane che tu citi ogni tanto. Si potrebbe fare ma se esiste la graduatoria esiste dio. Un abbraccio forte Erri
Grazie Erri, sai scrivere con il cuore, sempre sveglio. Un abbraccio gigi