Quando si entra in una città distrutta ci si accorge dell’enorme lavoro fatto per costruirla. Per capire questo pensiero di Vassili Grossman mi è servito essere stato in centri sventrati dall’impresa di demolizione della guerra.
Finita la lettura delle oltre ottocento pagine di “Stalingrado” (titolo originale “Per una buona causa”) mi confermo nell’opinione che Vassili Grossman sia il maggiore scrittore in Russo del 1900.
La letteratura al suo più alto livello si assume il compito di trasformare le peggiori convulsioni della storia in canto generale sopra distruzioni e lutti. Lo ha fatto Omero con la guerra di Troia, Tolstoj in Guerra e Pace con l’invasione napoleonica del 1812, Grossman con l’invasione nazista del 1941.
Uso il verbo leggere, ma l’esperienza è stata di attraversare da contemporaneo l’immenso territorio e la sua più fatidica battaglia consumata sulle rive del Volga.
Prima di essa, la metà del libro riferisce della ritirata lunga un anno dell’esercito sovietico, fino ad attestarsi a Stalingrado e da lì non più retrocedere.
Nella lettura mi ha sorpreso la frequenza dei riferimenti al Donbass, campo di battaglie allora come adesso.
Grossman era di Berditchiv, città Ucraina a ovest di Kiev. Lavorò come ingegnere chimico a Donetsk, poi fu corrispondente di guerra durante la riscossa sovietica, da Stalingrado fino a Berlino.
Una folla di luoghi e personaggi riempie le pagine, facendo di questo libro anche un testo di storia ricostruita dal basso: storia, perché spiega come. Come i popoli dell’Unione Sovietica, non solo il suo esercito, sconfissero l’invasore tedesco. Riuscirono nell’impresa quando in Europa non c’era un secondo fronte.
Gli Alleati sbarcarono in Normandia nell’estate del ‘44 quando i Russi erano già in Polonia, dopo aver ricacciato i tedeschi fuori dai confini che avevano attraversato tre anni prima.
Fa male a uno del 1900 vedere oggi combattere Ucraini contro Russi, Bielorussi, Ceceni.
La lettura di “Stalingrado” mi ha permesso di misurare l’enormità di fratricidio che si compie adesso in Ucraina.
Caro poeta, non ho letto ancora Grossman e la sua interpretazione storica della seconda guerra mondiale. Ne ho letti altri, più per dovere che per piacere. Tra i personaggi di quell’epoca che più mi sono piaciuti resta a galla il nome di Marc Bloch per tanti motivi, ma ognuno ha portato qualcosa di proprio per definire abilmente quel che si chiama Storia, e che spesso si perde in tanti rivoli di pensiero. Quando scelsi la facoltà di Storia avevo in mente qualcosa di diverso, ma come sempre accade quando si imbocca una strada non si sa cosa si trova nel tragitto… [una volta scrivesti ‘per mare non ci stanno taverne’. Be’, neanche per strada sai quante fontane troverai, ci si affida a qualcosa che in tanti chiamano ‘fede’]. Così, esame dopo esame ci si accorge di questa costante, la guerra; pare che molti di quelli che si sono ritirati da questo corso, scegliendo poi giornalismo, lettere o scienze politiche, lo hanno fatto per non trovarsi più davanti questa parola. Non c’è infatti capitolo di popolo che non ne preveda almeno una, e se istituzionalmente si è costretti a ricordare date e personaggi, quasi affoga nei numeri e nell’elenco di fatti e personaggi il senso vero di quel che si legge, di quel che si impara: l’uomo casca sempre nella stessa trappola. Questa tra Ucraina e Russia non è molto diversa dalle altre, sarà più breve, ‘novecentesca’, come l’hai definita tu molte volte… ma sta immersa in quel ‘plasma in cui si muovono i fatti umani’ chiamato tempo di cui Bloch parlava definendo la vita dell’uomo nel suo itinerario, esattamente come le altre. Il popolo russo, ah! Il popolo russo, che incredibile pena. L’unico, che era riuscito a far levare il cappello a Napoleone Bonaparte per la fermezza nella difesa, casa per casa, incendio dopo incendio. I russi che affrontano lo Zar, i russi che lo abbattono, i russi che istituiscono i Soviet, i russi che entrano ad Auschwitz, i russi che sopportano un regime di merda, i russi che cadono e si rialzano e bevono coca cola e vodka, e ruttano in jeans canzoni in inglese; i russi che … chissà che ne sarà di loro, dopo Putin. Hai ragione a pensare alla parola ‘fratricidio’, perché è l’unica imperdonabile. Tra i tanti che si sperticano a dare spiegazioni (e anche soluzioni… caspita!) di questo conflitto, persone anche autorevoli, mi chiedo se si rendono conto che ad esempio il livore di Palestinesi ed Ebrei risale a tempi infinitamente lontani, tanto che Adriano lo utilizzò pronta cassa per vendicarsi degli ebrei nella terza e sanguinosa rivolta contro Roma, chiamando la Giudea ‘Siria Palestina’, facendo riferimento agli odiati Filistei. Oppure che tra Sciiti e Sunniti continua a non scorrere buon sangue. Ti potrei menzionare qualcosa dei paesi balcanici, ma ne sai più di me… 🙂 In tutti i casi, lo vedi: il sangue è lo stesso, la terra pure, ma finora ha vinto il risentimento, l’interesse a conservare la propria identità o altri motivi che non contemplano una pace. Non credo ci voglia chissà che intuito o autorità per ipotizzare come andrà tra ucraini e russi, e dispiace, anche perché questi popoli avevano fino a pochi anni fa condiviso una storia comune fatta di sofferenze ma anche di grandi vittorie. Ci vorranno secoli, e forse non basteranno. Nel frattempo guardiamo scorrere immagini di questa ennesima guerra quasi in tempo reale, e forse ci suonano sensate oggi a distanza di cento anni le parole di Ungaretti ( “E’ il mio cuore il paese più straziato”), ma ipocritamente. Altre case e altri paesi crollano al mondo nelle stesse ore, per molte altre guerre; e se questa ci sconvolge meglio è solo perché c’è chi ce la racconta, o perché filtra sotto le porte la cenere di quei palazzi che potrebbe sporcarci il pianerottolo. E anche questo fa parte della storia umana. Chissà quale ucraino scriverà domani di questa…e chi la studierà. Un bacio, tuo tappino.