Risalgo un bosco in montagna, la neve scricchiola sotto i passi. Le mie orme si aggiungono a quelle di cervi e caprioli. Sto a casa loro, passo sulle tracce della loro notte. Trovo l’impronta nitida di un lupo, se ne va dritta nella mia stessa direzione, le cammino accanto. Immagino che sia anziano, isolato dal branco con il quale ha vissuto la sua vita. Arriva il tempo di non appartenere più a niente.
Deve esistere una tristezza da lupo, altrettanto proverbiale come la sua fame.
Salendo, sale pure il giorno, il bosco si dirada. Resta la roccia e su di essa il peso dell’inverno. Aggiungo i ramponi alle suole, ora i passi lasciano un segno di denti. Non ci sono altre impronte, non ci sono odori. Mancasse il vento, sarei l’unica cosa che si muove.
Leggo “Il volo del corvo timido”, il racconto di Nives Meroi sulla salita all’ultima montagna di ottomila metri. In coppia con Romano Benet le ha raggiunte tutte, alla loro maniera: sobria e indipendente. Da cosa? Dalle bombole di ossigeno che abbassano la quota, dai portatori al di sopra del campo base, che trasportano gli zaini agli alpinisti, attrezzano la salita, preparano la piazzola e la tenda, cucinano pure. Indipendenti infine da fanfare e da fanfaronate che accompagnano salite e spedizioni.
Leggo l’ultima cima che mancava al raccolto dei bordi più alti della terra, l’Annapurna, già tentato da loro, la più pericolosa di quelle montagne, con il peggior rapporto tra scalate riuscite e alpinisti morti.
Il suo Annapurna è un manuale completo dei rischi micidiali in alpinismo. Sui suoi versanti sono accumulati al massimo livello.
Fa bene a me, scarso praticante, una lezione da parte di chi li ha praticati tutti senza poterne ammansire uno, perché non possono essere addomesticati.
Accosto il mio granello di stanchezza di un giorno solitario in montagna, al suo granaio di oltre venti anni di Himalaya e Karakorum. Così mi viene in mente la storiella della mosca sul naso del bue che sta trascinando l’aratro. Un’altra mosca le chiede cosa stia facendo lì. Lei risponde: ” Non vedi? Stiamo arando”.
(Uà, jà, sei sempre troppo duro con te stesso, mo’ tu saresti la mosca che tenta l’impresa? Eppure so che anche tu hai scalato in modo importante!) … Ahhahaaaaa, ‘stiamo arando’ però è bellissima! Accosto l’immagine a quella dei vecchietti che si fermano ai cantieri e rompono i c…oni agli operai che lavorano, dando indicazioni. Poi si asciugano la fronte e se ne vanno a pranzo 😀 perché s’è fatta una certa. La montagna… mah. Eppure ce le ho tutte attorno… e non riesco mai a stabilire un contatto diretto con loro, a parte quando salgo in Val di Susa. Ma mica salgo così in alto, odio il freddo intenso, odio la vertigine. Però, di questa foto t’invidio il blu e il silenzio. Ci sono tanti silenzi al mondo, quello lì dev’essere bello da sentire :-). Ciao Poeta <3 …e stai attento e? Che adesso non è tempo di fare arrampicate!
Arriva il tempo di non appartenere più a niente.
Arriva il tempo di ritornare a noi stessi .Vengono in mente le parole di Mauriac- l’infinita pazienza del vizio- e di ricominciare
a vivere ogni giorno tra le nostre mille contraddizioni .Certo con gli occhi e le orecchie aperti a cercare di capire che -tutto quello che è umano non lo considero a me estraneo-
Dopo tutto, dopo aver letto con te nel bosco quei segni che ad altri non dicono niente e oltre i quali altri non vedono niente, per non aver mai praticato quella lingua, per mancanza di quello specifico carisma, per non averlo mai coltivato; dopo tutto, l’evidenza inganna se guardo a quel “tamarisco nella steppa” “che dimora in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere”.
Dopo tutto, anche a me piace far perdere le tracce, arrampicandomi su spalle altrui, come sul ramo più robusto, per guardare all’orizzonte con altri occhi su altri piedi. Credo di conoscere la tristezza della mosca, ed i pensieri ronzanti di colui in cui ho confidato.
Erri aggiunge la sua poesia a quella dei monti e della neve.
una passeggiata come metafora della vita
…ti leggo e rispondo “Non vedi? Stiamo vivendo!”