Nella pagina di un quaderno di anni fa trovo una frase appesa solitaria sopra un rigo: “Guarire dalle paure è ammalarsi di durezze”.
Non le ricordo più. Non so se si sono estinte da sole o se le ho schiacciate come foruncoli. Dovrebbero lasciare lo svirgolo di una cicatrice, invece è il vuoto di un quadro tolto dal muro insieme al chiodo.
Erano prolunghe dell’infanzia, paure visionarie con la trama caotica dei sogni. Sottopelle suonavano l’allarme. Erano racconti, narrativa intensa con apparizioni, riti di esorcismo. Sono mitologia personale, le paure.
Poi gli anni affollati, pubblici, di piazza le hanno prima sospese poi annullate. Al loro posto alcune sorveglianze meccaniche hanno addestrato i sensi.
Guarire dalle paure sembra naturale, ma è un’estirpazione.
Ne esiste una loro versione pubblica, a uso politico. Quella per lo straniero, ingrandita, aizzata, arriva a compiacersi di se stessa, producendo il contrasto dell’odio. Le paure pubbliche sono spauracchi, simili a malumori, usati per un friabile consenso. Sono però il pericolo di ogni democrazia, favorendo la scorciatoia dell’intervento provvidenziale.
Le intime paure sono invece insondabili, profonde. Quando scompaiono, resta la superficie di una buccia ispessita.
Tu la definisci “estirpazione”: tutto vero. E’ un po’ come dal dentista: se il molare è ammalato, non si guarisce. Non resta molto altro da fare che estrarlo, tornare alla gengiva, come da neonati. Il vuoto che resta si sente e si vede, è uno spazio che giace inutile e inutilizzato, ma nel profondo cela quantomeno il ricordo di che quello eravamo prima, della paura.
Scrivi che “ci si ispessisce”: anche qui hai ragione. Ma, umilmente, io alle tue parole aggiungerei queste: si ritorna alle origini, alla radice. Una volta estirpata la paura, ci si ritrova con una superficie più dura ma – contemporaneamente – si torna un po’ bambini.
Grazie, Erri.
Piano pubblico e personale si intersecano, si avvicendano, si alternano estrovertendo tutto un mondo inizialmente caotico…
Le paure sono gli inquilini del piano di sotto che, quando arrivano a conquistare il piano di sopra, per una manovra democratica o per forza bruta, devono comunque attendere che il capovolgimento avvenga anche dentro ognuno di loro e con maniere lente, tali che il tempo ne possa incidere il passaggio nella memoria personale e poi collettiva. E non soltanto sulla pelle; a pelle nessuna civiltà è mai sorta a sentimento collettivo, ne sono la testimonianza, sempre attuale, le dispute tra la minoranza degli inquilini di sopra, a scapito della maggioranza degli inquilini di sotto, imbrigliate in leggi in deroga alla perenne “guerra civile” che imperversa all’interno di ognuno, sotto la lente di un giudizio storico mai formulato dai vinti.
Scriveva Schiller a Goethe il 1 Agosto 1794:
[…] Proprio perchè la cerchia dei miei pensieri è più limitata, io la percorro più rapidamente e più spesso, riuscendo appunto per questo a utilizzare meglio quel poco di cui dispongo e a ottenere, mediante la forma, quella molteplicità che manca al contenuto. Lei tende a semplificare il Suo vasto mondo ideale, io cerco la varietà per i miei piccoli possedimenti. Lei ha da governare un reame, io appena una famiglia un po’ numerosa di concetti che vorrei ben volentieri allargare sino a farne un piccolo mondo”.
La paura di svegliarsi senza la gentilezza…
Ma perché tanti aggettuvi, non è forse meglio la sintesi poetica, ci eleva chiedendoci un piccolo sforzo, a noi, senza spiegarci tutto
Pierfranco, lei legge il blog personale di uno scrittore – Maestro di sintesi poetica che ci invidia tutto il mondo dei vivi – per dargli consigli di scrittura?