Sono profughi. Vengono chiamati preferibilmente con termini attenuati, che in nulla attenuano la loro condizione.
In inglese sono “displaced persons”, come se avessero perso la via di casa e si trovassero per sbaglio in un altro posto. Displaced: si constata che non sono più “placed”, piazzati a casa loro. Sono perciò spiazzati.
Sono profughi. Di casa loro conservano forse la chiave, per ricordo, caso mai un giorno potessero tornare e la trovassero perfino ancora in piedi.
Nella seconda guerra mondiale da noi come altrove le famiglie scappavano dalle città e dalle case bombardate. Mia madre e i suoi lasciarono Napoli appestata dalle incursioni aeree, notte e giorno, sotto una dissenteria di bombe. Si accamparono alla meno peggio in un villaggio. All’epoca si usava un termine attenuato, che anche lei ripeteva: ”Eravamo sfollati”.
Erano invece profughi interni di guerra.
La ricerca di scampo è il principale movente e la forza maggiore dei bagagli, nella storia umana, molto di più di pellegrinaggio e di turismo. Ci si stacca dal proprio posto sotto affanno e senza biglietto di ritorno. Il mondo è seminato a profughi.
La parola è scomoda, esige una risposta di soccorso garantito da trattati internazionali. È invece continuamente sospeso, il profugo e il suo diritto.
Si ricorre a varianti per giustificare l’ostacolo e l’inerzia. Clandestino è stata definizione perfino ufficiale a sostituzione di profugo, il cui difetto è fuggire senza regolare titolo di viaggio. La parola clandestino ha consentito respingimenti illegali.
La nave soccorso Ocean Viking è sequestrata dalle autorità italiane perché ha ospitato a bordo più persone di quelle consentite. Così fanno le navi di soccorso: accolgono provvisoriamente passeggeri imprevisti. Afferrano mani di profughi in stato di naufragio.
Le autorità preferiscono di no. Cambiano teste di ministri, resta l’omissione di soccorso. Prima che reato, è infamia negarlo.
Non sono displaced, né sfollati, né clandestini. Sono profughi, all’addiaccio in terraferma e in mare, accovacciati sopra i precipizi.

Caro Poeta, se guardo la data di “Solo andata” vedo la decorrenza di un problema che già c’era da anni. Il metro dell’immigrazione clandestina percorre tutta la penisola e segna l’ultimo centimetro nelle piazze, mercati e stazioni delle nostre città. Lì, tutto si concretizza, quelle facce da ‘solo andata’ hanno finito il viaggio e colorano le strade, sono talvolta presenze straniere che (giustamente, per numero e diversità) disorientano luoghi ancora piccoli di statura. Ogni faccia è una tavolozza di colori, per non parlare degli abiti, delle musiche che anche se non vuoi ti trasportano in terre da piedi nudi. Torino poi è stata stropicciata da mani di ogni provenienza, prima da noi meridionali con le grandi migrazioni del secolo scorso, poi dagli altri popoli. I primi vennero dal Marocco quarant’anni fa , muratori e spacciatori di fumo straordinario, e le loro donne da ‘ricongiungimento famigliare’ fasciate dalla testa ai piedi con i figli già occidentali e svelti… poi dalla Romania, a frotte dal 1990, una valangata di donne pronte a tutto, a spazzare case e androni di palazzi, a pulire culi nelle case di riposo, a fare qualsiasi lavoro onesto e non pur di salvarsi dalla miseria di un comunismo storicamente rovesciato in dittatura, seguendo uomini panciuti di birra appresso che non sempre se le meritano. La Cina no, s’è mossa diversamente. A Torino s’infilò lentamente trentanni fa ma come una marea la popolazione è cresciuta silenziosa negli ultimi venti, all’aumentare della crisi della Fiat le loro attività sono aumentate, con i soldi a nero fatti negli anni precedenti hanno comprato negozi, spazi mercantili; sfacciate oggi le ricchezze illegali e i macchinoni degli orientali). Poi arrivarono dall’Africa centrale i più poveri in assoluto ma anche i più spietati, molto spaccio di cocaina, molta prostituzione…(e questo credo sia successo in ogni città più o meno grande d’Italia); i barconi rovesciati a Lampedusa hanno la sponda lunga di Torino, tesò. Porta Palazzo non è più Torino da tanti anni, è Casablanca, Dakar, Kinshasa, Abidjan…la città è foresta di lingue. Via le macellerie classiche, dentro le halāl; via le ‘petnoire’ (parrucchiere), le mercerie e le sartine torinesi, dentro i cinesi che tagliano, cuciono e ti fanno anche barba e capelli a otto euro… Nel contesto generale nelle nostre città arretra il senso di tradizione per fare un po’ di posto ad altre culture; è la Storia a volerci internazionali, perché la migrazione dell’uomo forse non ristruttura le fondamenta delle città come la guerra, ma le sue facciate: senz’altro. Andrebbe tutto meglio se avessimo governi nazionali ed europei davvero in grado di gestire anche a livello economico questa fase di cambiamento dell’umanità, ma purtroppo è evidente l’incapacità collettiva, che causerà altri disagi specialmente tra chi lotterà per la sopravvivenza in un paese in crisi come il nostro. Il grosso problema infatti, anche per i sociologi, è la capacità di tenuta di un popolo in questo passaggio epocale insistente di migrazioni, la quantità da calcolare per bilanciarne il controllo e i bisogni di base, lo spostamento, la sostituzione etnica che modifica usi e costumi che spesso si accompagna e aumenta le criticità sociali… questi problematiche si sono registrate ovunque e sempre in ogni contingenza di cambiamenti sistematici, ma non è una scusante per non porvi rimedio dopo decenni di incapacità tangibile. E’ arrivato il momento di razionalizzare un po’ tutto. La data del 2005 del tuo libro “Solo andata”, che arrivava già a valle di anni di riflessione sul tema dell’immigrazione selvaggia e massiva, segna un punto di partenza che adesso deve arrivare a un termine; questi viaggi ‘accovacciati’, pericolosi e ignorati, scontati nelle vite e morti per annegamento, scontati nelle parole dove le vite si perdono e sono numeri o al massimo immagini da Pulitzer o sacchi neri da portare a riva… ecco: basta. Voglio sentir parlare di EUROPA, di diplomatici se ne esistono ancora, assenti in questi anni, voglio sentir urlare gli intellettuali, voglio sentir parlare di ponti di salvezza, di piani di rilancio di quei paesi troppo poveri, di immigrazioni sicure e umanitarie da non trattare come fuorilegge… se continua così e non si farà un piano seriamente politico non ci sarà futuro né per loro né per noi. Da soli non ce la facciamo più tesò, né a salvare né a contenere. L’hai anche scritto, “ L’Italia è terra chiusa”… e le terre chiuse: scoppiano. Un bacio tesò <3 <3 <3 … ma quando torni a Torino… mi manchi tanto .
“Il diritto comune si risolve nella protezione di tutti diffusa sul diritto di ciascuno; e la protezione di tutti a ciascuno si chiama fratellanza.” (V. Hugo)
Mentre l’interpretazione rigida di una legge incarna i “miserabili” quali tutti saremmo sulla terra o in mare, sotto questa o un’altra forma di Costituzione.
… Nel senso he la legge non dovrebbe ammettere l’ignoranza dei fanatici.
Profughi. Rimane sempre una ferita dentro. Profugo fu mio padre. Profugo di Fiume dopo la guerra. Le ferite forse si tramandano geneticamente. Forse per questo oggi non posso accettare ciò che vedo, ciò che sento.
Grazie per saper rendere la realtà percepibile al cuore più che al cervello. In una società dove le immagini arrivano sempre prima e spesso selezionate, decantate, riuscire ad arrivare al cuore, far immedesimare le persone, cercare di scambiare i propri panni con quelli di altri è l’unica strada possibile.