Mentre salgo a quattro zampe le piste che portano in cima, le linee verso l’alto si riducono a un mazzetto, fino a convergere in un solo punto. Scalare una montagna è raggiungere il termine dove il suolo smette in faccia al cielo. Niente reticolati, fili e recinzioni a sorvegliare il confine, basta l’ aria. Lassù vado a sbattere contro l’alleanza di ossigeno e di azoto, allo stato integrale, senza aggiunta di fumo, chiasso, polvere.
Una cima raggiunta mi ricorda ogni volta quella che servì da attracco al barcone a cesto di Noè. La storia più visionaria tra quelle narrate: una cima raggiunta in discesa, prima terra emersa dal diluvio. La fine del mondo è già stata raccontata nei capitoli 6,7,8 del libro Genesi/Bereshìt. Ogni cima raggiunta contiene per me una piccola parte del sollievo di quell’equipaggio di persone e bestie, che finalmente smise dopo un anno di navigare a mosca cieca. Senza poppa nè prua, senza timone, la rotta era affidata a chi la governava da fuori e da lontano. Quando ritoccò suolo i naviganti ebbero un principio di vertigine. Abituati a oscillare si accorsero di avere il mal di terra. Anche a me succede alla bocca dello stomaco il vuoto della cima, che non è quello accumulato in basso , ma quello spalancato sopra. C’è un arresto sopra qualunque cima, un fermo d’ orizzonte in cui si sta inceppati. Da lì bisogna invertire la marcia e l’ equilibrio. Una cima raggiunta scombussola e prepara al viaggio di ritorno.
In discesa mi vengono pensieri di mio padre. Finchè era ancora in vita, discendevo da lui. Dopo che è morto è cominciata l’ esperienza di salire da lui. Era finito in terra, sotto i piedi, io continuavo. Ovunque metto i passi mi ritrovo accanto a dove ha steso le sue ossa. Ovunque vada gli calpesto il corpo. Salgo da lui, risalgo, da quando vivo senza. Lo abbandonai, ragazzo partito senza sbattere la porta. Trovai la mia parte, il mio diritto e il mio ricordo tra le migliaia di una gioventù coetanea, rivoluzionaria perchè quello era il compito assunto dal 1900. Mio padre, uomo mite, socialista prima che il nome diventasse losco per malaffare di rampolli succeduti a Nenni, intravedeva il figlio tra le mischie. Per volontà di intendere acquistava il quotidiano “Lotta Continua” e lo conservava, facendolo rilegare per annate. Discendevo da lui ma rotolavo lontano. Da quando è morto, so di essere prolunga, di alzarmi in piedi sopra la sua vita stesa.
Non si tratta di rammarichi, di ripensamenti. Tra noi è andata come doveva, come succede a schegge sparse da una scalpellatura. Devo a lui la molta eredità di libri e di montagne. Tra i suoi scaffali ho conosciuto il magnifico arrembaggio agli occhi delle storie. Dalla sua reticenza di soldato nella seconda guerra mondiale,corpo di fanteria alpina, si sono salvate solo le montagne, sua consolazione dalla malora, trasmessa dentro i canti. Salgo, scalo mi strofino sopra la superficie ruvida e compatta, sto sulle pareti come sopra le pagine, toccando superfici. Dai suoi libri, dalle montagne che gli hanno pulito gli occhi e gli occhiali, ho ricevuto l’ uso di sfiorare.
(Foto di Carlos De La Fuente)
Sfidando il ridicolo, Noè si salvò dalle acque e ci fece suoi discendenti.
Dalle acque di una madre siamo usciti all’asciutto, soffrendo del nostro primo respiro.
Ora sappiamo la terra nutrita di materia e l’aria soffiata di voci; in un sogno custodiamo
la nostalgia di un alito di vita: occhi puri guardano nell’infinito.
Ed è così facile crederlo.
L’intuizione bella di Erri mi sembra stia in due verbi: discendere e risalire…
Perché risalire ai nostri genitori ci sembra a volte piò libero, doloroso sì, ma meno traumatico della “discesa” da loro?
Perché chi è ora padre o madre non riesce a restituire libertà-creatività alla “discesa da noi” dei propri figli?